La Giornata Mondiale dell’Ambiente è dedicata quest’anno al ripristino ambientale, cioè a far nascere o rinascere la natura laddove è degradata o non c’è (più). Le foreste non solo si possono ripristinate se degradate, ma possono essere strumento di ripristino di terreni danneggiati dalle attività umane. Scoprendo il ruolo delle foreste in un’intervista col dott. Enrico Siardi, capiamo l’importanza economica e sociale che iniziative di ripristino forestale possono generare, pensando a una cittadinanza attiva e responsabile dell’ambiente in cui vive.
È molto facile sentir parlare di deforestazione e di perdita degli habitat naturali, ma quando invece l’uomo ne facilita e accelera il loro ritorno? L’ONU ha istituito la Giornata Mondiale dell’Ambiente il 5 giugno e dedica il tema di quest’anno al ripristino degli ecosistemi, appunto degli ambienti naturali. Il dottor Enrico Siardi è un esperto di ripristino forestale ed è stato ospite di Giornal di Bosco in Forest talks – Chiacchiere da sottobosco. Qui di seguito vi proponiamo le domande e risposte dell’intervista.
Qual è la tua definizione di ‘ripristino ambientale’?
Prende il significato che vogliamo dargli noi. Senza cavillare troppo potremmo intendere il ripristino ambientale come far tornare l’ambiente ad una situazione antecedente un danno ambientale, sia dal punto di vista fisico che biologico. Nella realtà operativa dobbiamo tuttavia maturare una certa umiltà intellettuale e accettare che non è possibile ricostruire un ambiente oggi degradato esattamente com’era prima che venisse danneggiato dall’uomo, non fosse altro perché non è possibile conoscere a pieno la complessità dell’ambiente passato. Inoltre, non sappiamo con assoluta precisione gli effetti che i nostri interventi di ripristino avranno sull’ambiente e sulla sua evoluzione nel tempo, una situazione tipica dei sistemi complessi. Ecco che invece di ‘ripristinare’, che ha un sapore conservativo, quasi museale, sarebbe meglio parlare di costruire ambienti che diano certi servizi all’uomo e alla natura.
Perché è importante ripristinare gli ecosistemi, tanto che l’ONU dedica la decade 2021-2030 proprio a questo, mentre l’UE prepara obiettivi legalmente vincolanti per gli Stati Membri?
Per tre motivi: 1) gli ecosistemi sono la casa in cui viviamo, l’ambiente in cui ci siamo evoluti, l’unico in cui possiamo vivere per ora. Per cui mantenere una qualità decente degli ecosistemi è necessario per la nostra sopravvivenza e soprattutto quella dei nostri figli. 2) gli ecosistemi sono una banca dati che conosciamo in minima parte, una risorsa di informazione enorme, non solo a fini farmaceutici. 3) per motivi economici, per mantenere il valore di una risorsa fisica.
Ci puoi fare un esempio in Italia di un ambiente naturale ripristinato?
Conosco il Bosco di Mestre per averci lavorato a lungo. L’ipotetica situazione iniziale: zone miste paludose/forestali. Le azioni di ‘degrado’: bonifica, messa a coltura e poi – vero degrado – il depauperamento della fertilità chimico-fisica e biologica del suolo e l’inquinamento delle falde. Il ripristino ha riguardato il rimboschimento di circa 230 ettari dei 1200 previsti dal punto di vista urbanistico, un’operazione che non ha ripristinato situazioni pregresse ma ha avviato nuovi ecosistemi con molte utilità all’uomo e all’ambiente: riduzione dell’eutrofizzazione in laguna, ricostruzione della fertilità dei suoli, ricreazione (sono zone frequentatissime), riduzione degli impatti derivanti dalle attività agricole e in parte dalla viabilità automobilistica, un assetto urbanistico rivolto al futuro, l’incremento della complessità ecosistemica, la creazione di bellezza… Il bosco è un sistema collaudato, con costi decrescenti al passare degli anni e se ben gestito anche portatore di un utile economico. Non è l’unico sistema di miglioramento ambientale, anzi è sempre bene differenziare gli interventi (es. realizzare anche prati, zone umide, ecc.).
È interessante considerare il bosco per il ruolo che può avere come strumento di ripristino ambientale, oltre a essere a volte il tipo di ambiente danneggiato da ripristinare. Dall’esempio del Bosco di Mestre però il danno è chiaramente umano, ma se fosse una tempesta o un altro evento naturale a danneggiare l’ecosistema, l’intervento dell’uomo di agevolare il ritorno della foresta sarebbe una forma di ripristino?
In senso stretto no, perché la foresta abbattuta dopo il passaggio di una tempesta è certo un danno ma si inserisce in un processo naturale. Le perturbazioni limitate nello spazio e nel tempo, non catastrofiche, degli ambienti naturali sono il motore della loro evoluzione e contribuiscono a rafforzare il loro potere di resilienza. A mio avviso, il ripristino ambientale svolto dall’uomo deve essere messo in campo per rimediare soprattutto a danni umani, come in situazioni di inquinamento. Eventuali interventi di ripristino effettuati dopo eventi naturali calamitosi (come la tempesta Vaia) servono soprattutto a mantenere certe utilità per l’uomo, come ad esempio la produzione di legname o la protezione dal dissesto idrogeologico, o a proteggere certe specie particolari. La natura in generale, con la sua complessità e i suoi dinamismi, non ha invece bisogno di ripristini, è un sistema in perpetua evoluzione.
Non si rischia di intendere il ripristino forestale come il fatto di piantare una serie di alberi in un certo posto e basta? Cosa occorre per evitare che un progetto di ripristino forestale crei una foresta e non una piantagione di alberi?
La riforestazione è una piantagione di alberi che crea una foresta dopo molti decenni. Dalle esperienze di monitoraggio del Bosco di Mestre si è visto che l’habitat forestale inizia a crearsi lentamente dopo 10-20 anni (chiusura chiome, cambio flora erbacea, ecc.). Si possono comunque fare interventi accessori per arricchire la piantagione diversificando l’ambiente (bassure, radure, legno morto, “trapianto” di humus, ecc.) ma i tempi della foresta come ecosistema non sono quelli dell’uomo.
Quindi qual è la differenza di una piantagione per produrre e una per ripristinare?
Una piantagione produce sempre qualcosa, ma va considerato che cosa. Anche in una piantagione da legno oltre al legno si producono altri servizi inattesi, come ad esempio le condizioni adatte per la di nidificazione degli uccelli. La differenza sostanziale fra le due sta nella creazione di una diversa struttura, più varia nel caso di ripristino forestale, e nella scelta delle specie, che sarà sempre diversificata e basata sulle specie locali nel caso della forestazione; un altro fattore fondamentale è il tipo di gestione post-impianto, che differenzia nettamente le piantagioni da legno da quelle finalizzate ai ripristini ecologici. In quest’ultimo caso non si tiene il sottobosco “pulito” e si cerca rendere l’ambiente il più vario e complesso possibile.
La riforestazione sembra una risposta immediata quando ci si interroga sui diversi metodi di ripristino ambientale. Ci sono altre opzioni oltre alla riforestazione?
La piantagione è un ottimo metodo dove ambientalmente fattibile (quasi ovunque nelle nostre zone) e per me è il metodo migliore se non ci sono obiettivi specifici di altro tipo (esempio rimozione inquinanti). Aiuta a ripristinare la fertilità biologica e strutturale del suolo e in prospettiva garantisce anche alle generazioni future la possibilità di continuare a produrre il cibo di cui abbiamo bisogno e la qualità ambientale che ci è necessaria. Ci sono però anche altri modi, più corretti perché seguono i tempi e i meccanismi di “auto-ripristino” della natura: si può ad esempio semplicemente seminare le specie arboree e arbustive forestali oppure lasciare incolta una certa area a margine di un bosco esistente e lasciare che la foresta torni da sola per disseminazione naturale, o ancora altri sistemi; la scelta è dettata dalla situazione specifica di partenza, dagli obiettivi che si vuole raggiungere e da considerazioni economiche. Sono invece contrario a piantare boschi a “pronto effetto”, economicamente insostenibili (salvo ricadute sui valori delle zone edificate vicine) e socialmente e culturalmente nocivi perché non trasmettono alla gente una nozione cardine di cosa sia la natura, che è il passare del tempo: una foresta non si crea dall’oggi al domani. Le scorciatoie del pronto effetto sono spesso indicatrici di una politica che si cura più dell’immagine che di vere politiche socio-ambientali di lungo termine.
Ripristinare ha un costo a volte considerevole e i risultati si vedranno difficilmente fin da subito: ad esempio, una foresta impiega decenni a crescere. Chi pagherebbe per questi costi? Non sarebbe più economico lasciare aspettare che la foresta e la natura si riprendano gli spazi che occupava in passato?
Ottima domanda. Tecnicamente siamo ancora impreparati ai ripristini dei sistemi ecologici, che scontano l’imprevedibilità propria dei sistemi complessi, ma ci sono tuttavia delle tecniche consolidate che possono però essere molto migliorate, specialmente dal punto di vista organizzativo. Servono sistemi di ripristino che prendano in considerazione tre ambiti: quello ecologico (tecnica operativa); quello economico (rapporto costi/benefici anche in relazione a utilizzi alternativi dei soldi a disposizione); quello socio-culturale (informazione, progettazione partecipata, realizzazione in parte supportata da volontari). Ci sono infinite possibilità, anche economiche e molto “naturali” come preparare il terreno e seminare, lasciare incolti i margini boschivi, ecc. ma che richiedono tempi lunghi. L’informazione culturale e la partecipazione della popolazione è tuttavia la chiave per passare dalla cultura del nuovo bosco a pronto effetto (operazione di marketing territoriale, salvo casi particolari) alla cultura del benessere globale. Un bell’esempio di partecipazione è Umi no mori (Bosco nel mare) dell’architetto Tadao Ando a Tokyo, 88 ettari di bosco su un’isola artificiale ex-discarica realizzato anche con l’intervento di volontari. Per inciso questo esempio dimostra che si può effettuare un “ripristino” forestale anche laddove una foresta non c’è mai stata ma ha mostrato il potenziale per crescere. Inoltre, la creazione di questo bosco a Tokyo mostra come il ripristino ambientale può ripristinare anche le relazioni sociali.
Pensando che oggi si piantano alberi che saranno adulti quando la temperatura globale sarà aumentata, cosa valuteresti nella scelta delle specie di piante per un ripristino forestale? Considereresti anche l’uso di specie non native ma che sarebbero ben adattate alle condizioni climatiche future?
Rimanendo sulle specie autoctone, apparentemente sarebbe sufficiente traslare leggermente gli orizzonti fitoclimatici di riferimento (portare le specie delle quote inferiori verso la montagna). In realtà la questione è più complessa perché è probabile aspettarsi un periodo di decenni di instabilità climatica: posso piantare eucalipti nella pianura padana ma prima o poi una gelata li stroncherà. Molto complessa è anche la scelta se utilizzare o meno specie non native del posto: io sono contrario, non per una sorta di purismo sovranista botanico che mal digerisco, ma perché penso che il principio forestale di seguire e cautamente guidare i processi naturali debba essere il cardine della nuova ideologia ecologista, che in passato ha avuto più un approccio tassonomico (tutelare le specie) che ecologico. Non pianterei robinie ma se presenti non cercherei di eliminarle. Un sistema ecologico maturo seleziona da solo i più adatti. Forse sposterei l’attenzione dalla scelta delle singole specie alla struttura della foresta che si vuole costruire, pensando soprattutto agli obiettivi che vogliamo perseguire con il nuovo bosco.
Pensi che il ripristino forestale e ambientale possa aiutare a ripristinare la relazione uomo-natura in un modo meno aggressivo ma più armonioso per la società e sinergetico per l’economia?
Sì se è accompagnato dalla partecipazione e dalla crescita culturale delle persone coinvolte. Il ripristino ambientale può essere un sistema di ripristino culturale, necessario perché non abbiamo più quella relazione con le foreste che altre popolazioni hanno mantenuto perché vivono in stretto contatto con le foreste e a volte ne dipendono per la sopravvivenza. In passato, in occasione della progettazione di parchi, ho visto grandi contrapposizioni, ad esempio fra agricoltori e ambientalisti. Ora c’è invece più consapevolezza dell’intreccio esistente tra i dei fattori economici, quelli ambientali e quelli socio-economici. Sono per questo fiducioso che la spinta istituzionale e culturale che iniziamo a intravedere anche da noi stiano portando a un ripristino anche della nostra relazione con la natura.
La natura va aiutata a ritornare? Ragionando in chiave antropocentrica, che diritto ha l’uomo di riportare la natura e non lasciare che ritorni da sola?
Parlare di natura è fuorviante, perché presuppone la separazione dell’uomo dall’ambiente in cui vive. Anche l’uomo è natura e per questo preferisco parlare di ‘realtà’. Dovremmo essere intelligentemente egoisti, cioè aiutare la natura se questo contribuisce a creare un contesto ambientale ed ecologico adatto e utile per noi nel lungo periodo, il che equivale per forza di cose a mantenere il “nostro” ecosistema in più che buone condizioni. Non poniamoci domande morali ma funzionali. Dobbiamo co-evolvere con il nostro contesto per mutua utilità.
Riforestare significa reinserire non soltanto la vegetazione originaria ma anche la componente animale. La fauna ha un ruolo anche nella diffusione di alcune specie vegetali. Non vi è il pericolo di rendere il tutto solo a un parco se dimentichiamo la fauna?
Non mi intendo di fauna. A buon senso penso sia meglio creare ambienti adatti per struttura e composizione ad ospitare certe comunità animali che riportare direttamente certe specie. Ricordiamoci che la fauna si muove e in assenza di barriere invalicabili riesce sempre a raggiungere gli ambienti adatti. Assicurare una certa variabilità ambientale garantisce nel medio periodo anche una corrispondente variabilità faunistica.
Ci sono fondi a cui fare riferimento per ottenere risorse per il ripristino di ecosistemi in ambito urbano?
Ad esempio il Programma Sperimentale per la Riforestazione Urbana mette a disposizione per l’anno 2021 18 milioni di euro per le città metropolitane. Non escludo ci siano attualmente altre fonti nazionali o regionali di finanziamento utilizzabili anche per le altre città e senz’altro ci saranno altri fondi a seguito del nuovo indirizzo dell’Unione Europea; è in questa direzione ad esempio che l’architetto Boeri propone progetti di Green Belt (Cintura Verde) per le città italiane. L’importante è avere una visione chiara di cosa si vuol fare e del perché e costruire il consenso soprattutto politico per attuarla. Difficilmente progetti di un certo rilievo possono andare in porto senza tale consenso (esperienza personale).
Come sensibilizzare la cittadinanza e l’amministrazione pubblica sull’importanza del ripristino ambientale?
La cittadinanza è già pronta per via di un gran desiderio di avere più verde nelle città, specialmente in quelle grandi, e perché il clima culturale è cambiato. Vedi per esempio la Biblioteca degli Alberi a Milano o certi corridoi ecologici in progetto nella stessa città. Più difficile invece è raccogliere un consenso “ambientalista” nelle zone rurali, dove il rapporto con la natura è per forza di cose più utilitaristico. Tuttavia anche in queste zone le cose stanno cambiando molto rapidamente grazie al ricambio generazionale e al riconoscimento che l’agricoltura di elevata qualità (di prodotto e di contesto) è la strada da percorrere per l’Italia per posizionarsi nel mercato internazionale. Serve coinvolgere, fare iniziative, anche politiche ma molto concrete e che diano risultati verificabili e con un buon ritorno di immagine. I paesi più industrializzati possiedono un benessere economico tale da potersi permettere di non distruggere più le foreste e gli altri ecosistemi ma addirittura di poterli ripristinare; questa fortuna va usata.
Un messaggio finale che hai piacere di condividere?
Migliorare il contesto in cui viviamo, con onestà intellettuale: curare le relazioni fra noi e la natura ma anche fra le varie componenti sociali. Co-evoluzione è la parola d’ordine. Ho una grande fiducia nei giovani.
Quindi migliorare il sociale migliora l’ambiente. È con questo in mente che possiamo passare un buon 5 giugno e considerare l’ambiente in cui viviamo con sguardo più critico: Come mi inserisco io, singolo cittadino, nel ripristino di foreste e altri ambienti naturali nel quartiere o nella città in cui mi trovo? Quali iniziative già esistono? Come è informata e coinvolta la cittadinanza? Qual è la sostenibilità economica del ripristino ambientale promosso dalla classe politica? Quali possono essere i suoi effetti per me e la società sul lungo periodo? È stato pensato a come poterli garantire o massimizzare?
Grazie, Enrico, per le risposte e per gli spunti di riflessione e buona Giornata Mondiale dell’Ambiente!